Le aurore boreali hanno affascinato per secoli culture diverse: miti, spiriti, fuochi magici e Valchirie si intrecciano dietro a uno dei fenomeni più misteriosi della natura.
Prima che la scienza spiegasse il fenomeno con particelle solari e campi magnetici, l’aurora boreale accendeva il cielo notturno e la fantasia di intere popolazioni. C’erano popoli che le consideravano presagi di morte, altri che vedevano nei giochi di luce una via d’accesso al mondo degli spiriti. Non a caso, il nome stesso scelto da Galileo Galilei nel 1619, “Aurora Borealis”, mescola la divinità dell’alba con l’aggettivo latino che richiama il nord. Ma fuori dai laboratori, nei secoli, l’aurora è stata molto di più: volpi di fuoco, ghiandaie sacre, anime dei bambini e perfino l’armatura scintillante delle Valchirie.
Le storie del Nord Europa tra spiriti e magie
In Finlandia, le aurore si chiamano revontulet, ovvero “fuochi della volpe”. La leggenda racconta che una volpe magica, correndo tra le colline innevate, generava scintille con la coda, dando origine a quei bagliori nel cielo. Per altri, la parola repo si riferiva invece a sortilegi antichi, una battaglia tra oscurità e luce che si giocava sopra le teste degli uomini.
Il popolo Sami, presente nel nord di Norvegia, Svezia e Finlandia, associava le luci celesti agli spiriti dei defunti. Le chiamavano guovssahasat, un termine che evocava sia la luce dell’alba sia un piccolo uccello: la ghiandaia siberiana, ritenuta il rifugio dell’anima di un cacciatore. Ucciderla era un tabù. Per questo, durante le aurore, ai bambini veniva chiesto di restare in silenzio. Si temeva di turbare chi ormai non era più tra i vivi.

Il Kalevala, il poema epico finlandese, ne dà un’altra interpretazione: quelle luci erano porte infuocate del nord, soglie tra il mondo conosciuto e un territorio sconosciuto, potenzialmente ostile. Un confine che non andava mai superato a cuor leggero.
In Groenlandia e Siberia, la visione si fa più cupa. Le luci verdi erano il segno della presenza di bambini morti che giocavano nel cielo. Per gli Skolt Sámi, la luce era il sangue dei defunti assassinati, che continuavano a ferirsi anche dopo la morte. Altre popolazioni immaginavano anime che cavalcavano, lasciando scie luminose e bagliori improvvisi. Nessuno, insomma, restava indifferente.
Il respiro degli dei e le luci del destino secondo i Vichinghi
Per i Vichinghi, l’aurora boreale aveva un significato preciso. La luce che tagliava il buio non era casuale: erano le Valchirie, scelte da Odino per selezionare i guerrieri che sarebbero andati nel Valhalla, il paradiso dei combattenti. Ogni volta che le armature delle Valchirie riflettevano il cielo, si creava quel chiarore che oggi chiamiamo aurora. E quei fasci di luce servivano per guidare i valorosi caduti nel loro ultimo viaggio.
Esiste anche l’idea che l’aurora fosse il respiro dei soldati morti, o perfino il Ponte Bifrost, che nella mitologia norrena collegava il mondo degli uomini a quello degli dei. Un arco vibrante, che appariva solo in momenti particolari. La morte in battaglia, in quel contesto, era il passaggio a un destino glorioso. E l’aurora lo rendeva visibile.
In Europa centrale e meridionale, le aurore boreali si mostravano raramente, e quando lo facevano apparivano spesso rosse. Questo colore ha alimentato l’idea del sangue e della guerra. Nel 1870, durante la Guerra Franco-Prussiana, un’aurora rossa coincise con le battaglie più cruente. La superstizione fece il resto. Quelle luci vennero viste come un brutto presagio, un segnale da temere.
Nel tempo, le spiegazioni si sono fatte più precise, ma il fascino resta. E se oggi le chiamiamo particelle cariche, rimane la memoria delle volpi di fuoco, dei portali del nord, dei bambini che giocano tra le stelle.